Alberto Auricchio dopo un periodo di ricerca a Philadelphia (Usa), presso l’Istituto di terapia genica umana dell’Università della Pennsylvania, è rientrato in Italia all’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Napoli, dove tuttora dirige un gruppo di ricerca impegnato nello sviluppo di strategie di terapia genica per malattie genetiche dell’occhio, come per esempio l’amaurosi congenita di Leber e la sindrome di Stargardt, e del metabolismo, come la mucopolisaccaridosi di tipo 6. Durante il meeting di Firenze è intervenuto in merito alla cura con i geni: cosa significa allo stato delle conoscenze attuali. La terapia genica sta emergendo come una delle terapie innovative più efficaci per malattie croniche come le malattie ereditarie. La terapia genica offre il vantaggio di somministrare il farmaco contenente acidi nucleici (DNA o RNA) una sola volta e beneficiare dell’effetto terapeutico per molti anni o, auspicabilmente, per la durata della vita. Ad oggi due farmaci di terapia genica sono stati approvati in Europa, entrambi per malattie ereditarie, uno dei quali sviluppato da Fondazione Telethon in collaborazione con l’azienda GSK. Molti altri prodotti di terapia genica sono in sperimentazione clinica o nelle fasi avanzate di sperimentazione pre-clinica. Due esempi di malattie per le quali la sperimentazione pre-clinica o clinica di terapia genica è avanzata, grazie al contributo di Fondazione Telethon, sono una forma di cecità infantile ed un difetto del metabolismo che fa parte del gruppo di malattie da accumulo lisosomiale. In entrambi i casi, una rigorosa ricerca pre-clinica durata vari anni, ha permesso di dimostrare l’efficacia dell’approccio in modelli di malattia prima di passare alla sperimentazione clinica, anch’essa di lunga durata e molto costosa, che in un caso ha permesso di ottenere risultati promettenti sia in termini di sicurezza che di efficacia. Nei prossimi anni vedremo sempre più esempi di sperimentazioni cliniche di terapia genica di successo che potrebbero diventare cure per malattie finora orfane di un trattamento. La collaborazione tra strutture accademiche non profit, nelle quali spesso si dimostra per la prima volta il potenziale di strategie come la terapia genica, e industrie, che hanno le infrastrutture ed i mezzi per supportare lo sviluppo clinico e poi commerciale di queste terapie, sarà cruciale per far arrivare al paziente il più rapidamente possibile queste terapie d’avanguardia.
Il dottor Giancarlo La Marca nel 2001 lavora presso il Laboratorio di Spettrometria di Massa del Centro di Screening Neonatale dell’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze, dove ha coordinato il progetto pilota per l’estensione dello screening neonatale. Nel 2004 ha coordinato l’estensione dello screening neonatale per la regione Toscana, dal 2006 per la regione Umbria e nel 2012 per la regione Sardegna. Dal 2007 al 2015 diventa assistant professor di Farmacologia presso l’ Università di Firenze. Attualmente è Professore Associato di Biomedica Clinica presso l’Università di Firenze. Dal 2011 è a capo del Centro di Screening Neonatale e del laboratorio di Clinica Chimica e Farmacologia presso l’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze. La Marca è vicepresidente della Società Italiana per lo Studio delle malattie Metaboliche Ereditarie e lo Screening Neonatale. È inoltre membro del Consiglio Direttivo del Centro di Spettrometria di Massa presso l’Università di Firenze e sono a suo nome la proprietà intellettuale e i brevetti presso l’Università di Firenze. A Firenze si è occupato dell’approfondimento dello screening metabolico allargato indicando cos’è, com’è regolato e quali prospettive apre. Gli screening neonatali sono procedure diagnostiche che hanno come scopo quello di evidenziare patologie in fase presintomatica, con notevoli vantaggi sia per il paziente (in termini di salute), che per la società (in termini di risparmi di risorse). In molti paesi viene effettuato lo screening neonatale per numerosi errori congeniti del metabolismo (ECM); in alcuni di essi, con l’impiego della spettrometria di massa (MS), si può ottenere la diagnosi di oltre 40 ECM fra difetti della beta-ossidazione degli acidi grassi, amminoacidopatie, acidurie organiche e difetti del ciclo dell’urea e più recentemente per malattie da accumulo lisosomiale e immunodeficienze. Gli screening in Italia sono regolamentati da una legge del 1992 che rendeva obbligatori i test solo per fenilchetonuria e ipotiroidismo congenito. Anche per la Fibrosi Cistica c’è obbligo di legge, ma dopo ventiquattro anni la copertura nazionale dei neonati per essa è ancora incompleta. Lo screening allargato è iniziato a macchia di leopardo in Italia a partire dal 2001 e ancora oggi la copertura sul territorio nazionale è molto parziale per quanto in aumento (circa il 40% della popolazione, dati SIMMESN 2015). Nel 2016 è stata emanata una legge che dovrebbe rendere i neonati e i cittadini tutti uguali sotto questo aspetto assicurando equità nel pannello di patologie, nelle tecnologie e nella copertura economica.
Giuliano Grignaschi svolge attività di ricerca nei laboratori di Neuroscienze dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano, occupandosi dello studio dei meccanismi d’azione degli antidepressivi, del ruolo del sistema nervoso centrale nel controllo del comportamento alimentare e, più recentemente, dello sviluppo di modelli animali per lo studio della sclerosi laterale amiotrofica (Sla). Dal 2005 è responsabile del Benessere animale negli stabulari dell’Istituto Mario Negri (sedi di Milano e Bergamo), vice-presidente della Basel Declaration Society e segretario generale di Research4Life. Al meeting ha voluto approfondire l’uso del modello animale nella ricerca, illustrando anche i motivi perché è ancora fondamentale. Le attuali conoscenze scientifiche non ci permettono ancora di ricostruire nel dettaglio il funzionamento di un organismo vivente complesso qual’è l’uomo: un organismo vivente infatti non è semplicemente la somma di tutte le cellule che lo compongono, ma anche e soprattutto il risultato delle complesse interazioni che avvengono tra singole cellule che formano tessuti, che a loro volta interagiscono a formare organi e che, ancora, sono in strettissima connessione tra loro a formare l’intero organismo. Tutte queste interazioni, ad oggi ancora non ben conosciute, rendono impossibili per i ricercatori previsioni basate solo su metodologie in vitro (colture cellulari) o in silico (simulazioni al computer) e richiedono l’utilizzo di “modelli” più vicini all’uomo: gli animali. Il modello animale deve però essere utilizzato solo in caso di reale e assoluta necessità e in mancanza di altri metodi: è quindi fondamentale capire come la sperimentazione animale nella ricerca scientifica sia regolamentata in Italia e nel resto del mondo, quali progressi ha consentito, come è cambiata negli anni e cosa si sta facendo per cercare di rimpiazzarla con metodi altrettanto efficaci. Non da ultimo vanno considerati gli aspetti etici e il corretto inquadramento della sperimentazione animale nella società moderna.
Per cosa si usano i modelli animali?
Farmaci (test di efficacia e di sicurezza in varie specie)
- Trapianti (C. Barnard1967: dopo 52 tentativi nel cane il trapianto riesce e passa all’uomo)
- Dispositivi biomedici in generale (biocompatibilità)
- Ricerca di base (Hodgkin e Huxley dimostrano il movimento della cariche ioniche sugli assoni giganti del Loligo pealeii e ottengono il Premio Nobel nel 1963; nel 2015 il Nobel per la medicina a ricercatori che, nel ratto, descrivono il sistema con cui il cervello costruisce una mappa dello spazio che ci circonda).
Giuseppe Testa dirige il laboratorio di Epigenetica delle cellule staminali presso l’Istituto europeo oncologico di Milano, si occupa di epigenetica applicata allo studio dei tumori e delle malattie genetiche. In particolare come ricercatore di Fondazione Telethon, Giuseppe Testa si occupa della sindrome di Kakuki, una malattia dovuta a mutazioni di fattori epigenetici che causano disabilità intellettiva e anomalie funzionali a carico di numerosi organi. In questo contesto ha voluto approfondire le nuove frontiere della medicina, in particolare sulle cellule staminali e sequenziamento del genoma. Il sequenziamento del DNA su scala sempre più vasta sta portando rapidamente alla scoperta delle cause genetiche di moltissime malattie e all’attuale classificazione clinica di molte malattie si va affiancando una nuova classificazione, di tipo molecolare, che illumina i diversi geni le cui mutazioni possono portare a uno stesso tipo di disturbi. Per molte di queste malattie l’approccio della terapia genica, rimpiazzare i geni malati o in futuro ripararli direttamente, non è però praticabile. Le maggiori promesse per questo tipo di malattie viene dalla riprogrammazione cellulare, una delle frontiere delle medicina in fase di crescente accelerazione, che permette di generare modelli di malattia paziente-specifici su cui sperimentare o validare terapie farmacologiche e, in qualche caso, aprire anche opzioni di rigenerazione tissutale.
Infine, la crescente facilità di accesso al DNA, incluso il DNA fetale nell’ambito di una gravidanza, apre nuove prospettive anche per la diagnosi genetica prenatale.
Luigi Naldini è professore ordinario di Istologia e di Terapia genica e cellulare presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, da molti anni nella sua attività di ricerca si occupa di terapia genica: a lui si deve lo sviluppo dei primi vettori lenti virali ibridi derivati dal virus HIV responsabile dell’Aids, di cui ha dimostrato l’utilizzo per il trasferimento genico in cellule non proliferanti come quelle nervose. I vettori lenti virali sono stati impegnati nella prima sperimentazione al mondo della terapia genica per una grave malattia genica neurodegenerativa, la leucodistrofia metacromatica,avviata presso l’Hsr-Tiget nel 2010 e tuttora in corso con risultati incoraggianti. A Firenze ha voluto approfondire il Gene Editing, una nuova era nella biologia molecolare. La terapia genica, ovvero la possibilità di manipolare e trasferire geni modificando così le “istruzioni” di funzionamento delle cellule, è ormai una realtà, anche terapeutica: sono stati registrati i primi farmaci basati su questa tecnologia e numerosi sono gli studi clinici in tutto il mondo che ne stanno valutando sicurezza ed efficacia per diverse malattie, genetiche innanzitutto, ma non solo. Parallelamente, però, si sono decisamente imposte sulla scena nuove tecnologie che consentirebbero di andare ancora oltre: ovvero di correggere i geni, riparandone la funzione: inserire il gene terapeutico al posto di quello malato, riparandone la funzione e ricostituendone il controllo fisiologico dell’espressione (correzione genica) o addirittura riscrivere letteralmente i geni (gene editing). Se da una parte queste tecnologie offrono grandi potenzialità terapeutiche in futuro, dall’altra aprono interrogativi del tutto nuovi, innanzitutto scientifici (sicurezza ed efficacia in primis), ma non solo: fino a dove possiamo spingerci nel modificare il patrimonio genetico di una persona? Come e quanto saranno sostenibili dal punto di vista economico e produttivo?
ps: chi fosse interessato ad avere le slides presentate dai relatori può richiederle a : segreteria@angelinoonan.it